Dice la tradizione che Luca fu pittore e medico. In realtà egli è l’iconografo di Gesù, gloria di Dio e salvezza dell’uomo.
Ogni autore abita in una parte del suo libro: ne fa il suo punto di osservazione, quasi la firma. Il nostro abita nel desiderio suscitato dalle parole di Gesù: «Beati gli occhi che vedono ciò che voi vedete» (10,23). Essb risuona anche nel rammarico dei due di Emmaus, che constatano delusi: «Ma lui non l’hanno visto» (24,24).
Luca vive l’anelito del pellegrino: contemplare la luce di quel volto davanti al quale l’uomo sta di casa, perché solo lì ritrova se stesso e rispecchia colui di cui è immagine e somiglianza.
Le parole: «Beati quanti ascoltano la parola di Dio e la custodiscono» (11,28; cf. 8,21) indicano il cammino attraverso cui si compie questo desiderio.
L’identità di Luca è quindi dinamica. Egli è l’homo viator, tutto teso alla meta. Egli propone a sé e a tutta la chiesa la beatitudine stessa di Maria, che ha concepito e cresciuto nel tempo il Verbo eterno di Dio (11,27). È la beatitudine di chi, credendo alla Parola (1,45), dona sulla terra carne al Figlio dell’Altissimo che si fa suo figlio. Ma la Parola che ascolti, concepisci, custodisci e generi, ha il potere di farsi ascoltare, concepirti, farti crescere e generarti a vita nuova. Accade così l’inimmaginabile, desiderio oltre ogni desiderio: l’unità e l’uguaglianza nell’amore tra Dio e uomo. Perché uno diventa quella parola che ascolta.
Attraverso l’ascolto Luca intende trasformare i lineamenti del credente in quelli di colui che è creduto. Questi è Gesù, parola di Dio, che ha rivelato nel suo il volto del Padre e il nostro di figli e suoi fratelli.
Dante chiama Luca «Scriba mansuetudinis Christi». Il suo infatti è il Vangelo della misericordia. «Diventate misericordiosi, come il Padre vostro è misericordioso» (6,36) è il tema di tutta la sua opera, suonato e variato in tutti i fatti e le parole di Gesù. Egli vive e canta l’amore folle di un Dio innamorato dell’uomo, sua creatura. Quest’amore, principio della sua vita di Figlio del Padre, diventa per tutti i fratelli sorgente di un’esistenza nuova, che vince ogni male.
Luca fa seguire al suo Vangelo gli Atti degli apostoli: a un tratto del volto di Gesù, il Figlio, fa corrispondere un tratto speciale di quello dei suoi discepoli. Nell’obbedienza a lui, parola del Padre, l’uomo diventa come lui, figlio del Padre. Per questo gli Atti, che narrano ciò che gli apostoli hanno fatto e detto, sono un buon criterio interpretativo del Vangelo, che narra ciò che Gesù fece e insegnò (At 1,1).
Il Vangelo di Luca si presenta come una grande catechesi, che parte dal desiderio di vedere il Signore e ne indica la via al compimento nell’ascolto della sua parola.
La prima parte del Vangelo è quindi una catechesi dell’ascolto (1,1-9,50). La Parola è un seme. Seminato nell’annuncio, entra nell’orecchio, attecchisce nel cuore, cresce nel «ricordo» costante e diventa pane e forza per il cammino del pellegrino a Gerusalemme.
La seconda parte è una catechesi della visione (9,51-24,43), che tratteggia il volto di colui che compie il «santo viaggio» (Sai 84,6) e culmina nella «theoria» del Giusto crocifisso per misericordia. È la teoria cristiana, l’unica volta che tutto il NT usa questa parola (23,48) ! Lì contempliamo la gloria: l’amore di un Dio, solidale con noi malfattori, che ci reintroduce nel giardino perduto (23,40-43).
Il desiderio che ha Luca di ascoltare e di vedere – anzi, di ascoltare per vedere! – è comprensibile se si pensa che né lui né i suoi lettori hanno visto il Signore. Eppure lo amano (Pt 1,8)! Pur senza illudersi circa un suo imminente ritorno, fanno dell’invocazione: «Maranà tha: vieni, o Signore» (ICor 16,22), il senso della loro vita. Appartengono idealmente alla nostra generazione, che non è più sotto l’impressione della prima ed è cosciente di non essere l’ultima. Si trovano a vivere la nostalgia per il loro Signore in un mondo estraneo. Capiscono che vederlo costa la fatica di ricomporre il suo volto, riconciliando ogni estraneità con lui, il Figlio del Padre, da cui tutti i fratelli si erano alienati. Il suo ritorno si realizza nel nostro cammino di discepoli, che ascoltano e annunciano la sua parola. Lui torna sempre in mezzo a noi e si accompagna a noi nello stesso modo in cui se ne è andato di tra noi (cf. At 1,11). Il ritorno del Figlio è ora il nostro cammino di fratelli verso il Padre.
Il regno del Padre è «già» realizzato nella storia di Gesù, e si realizza «oggi» in noi che ascoltiamo la sua parola (4,21). Essa ci attualizza e rende contemporanei a lui, che ci offre nel nostro male la sua vicinanza che ci salva. L’annuncio della Parola apre a tutti questo regno, in modo che il «domani» del mondo diventi il dominio di colui che è, che era e che sarà, in eterno, il Figlio dell’amore del Padre donato a tutti i fratelli.
Luca giustamente è considerato un evangelista storico. Egli è sensibile alla dimensione del tempo come passato, presente e futuro e conosce bene il loro reciproco rapporto. Sa come il ricordo amato fluisce nel progetto desiderato e si fa azione qui e ora, capace di trasformare il mondo. Per lui la chiave di lettura della storia universale è la vicenda di Gesù, «centro del tempo», ricordo da trasmettere a tutti perché ne possano vivere. In lui infatti si compie sia il passato della promessa fatta ad Israele, sia il futuro della salvezza aperta a tutta l’umanità. Questo compimento si realizza nell’oggi della fede: chi presta ascolto alla sua parola, si inserisce nel suo stesso cammino di obbedienza al Padre. Così la sua storia si rende contemporanea a ogni epoca e diventa la stessa del credente che la vive nel proprio tempo.
Luca è lo storico della salvezza. In un mondo perduto, che sembra scivolare sempre più velocemente nell’abisso, egli presenta la misericordia di un Dio che, nel Figlio, è solidale con ogni suo figlio. Perché nessuno si perda, lui stesso si è perduto per incontrare tutti e ricondurli alla casa del Padre. Ora il Padre invita tutti alla festa del figlio perduto e ritrovato, anche quelli che non ammettono di essersi mai perduti!
Luca si pone inoltre con acutezza quei problemi che ci poniamo anche noi: cosa significa che Cristo ci ha salvati e quale salvezza ci ha portato, se vediamo ancora tanto male in noi e intorno a noi? Come mai la storia sembra continuare ancora come prima? Perché il male c’è ancora e sembra dominare il mondo? Qual è il senso del tempo presente e delle cose – belle e buone, brutte e cattive – nei confronti del futuro definitivo dell’uomo? Qual è questo futuro, il senso della storia: la fine o il fine?
Luca riconduce questi problemi, che riguardano il passato e il futuro, alla loro incidenza sul presente: il cristiano è chiamato alla responsabilità di vivere «oggi», in un mondo malato, quella salvezza che è già stata donata ed è «per tutti» (2,10s).
Per questo egli è veramente cattolico, cioè universale. Dio è Padre di tutti e non ha figli in più, che possa buttar via o sprecare. Chi conosce il cuore del Padre, non può non amare ogni uomo come fratello, perché lo è. Chi esclude uno, ignora il Padre e il suo amore. Per Luca Gesù è colui che realizza l’anno sabbatico (cf. 4,18s). La chiesa farà lo stesso dopo di lui (cf. At 2,42-58; 4,32-35). Condizione necessaria per abitare la terra, l’anno sabbatico consiste nel vivere in concreto la paternità di Dio nella fraternità (Lv 25). Esso realizza in ogni generazione il tempo puro e forte delle origini, in cui il Padre dona l’eredità promessa a tutti i suoi figli, nessuno escluso. I meno privilegiati e gli ultimi sono i primi da considerare fratelli, diversamente non si è figli.
Infine il Vangelo di Luca è missionario. Il Padre ha mandato il Figlio, che è venuto per incontrare tutti i fratelli smarriti. Chi, a sua volta, ritorna alla condizione di figlio, è pure lui inviato agli altri. Non si tratta di proselitismo per accrescere il potere e il prestigio della comunità! Chi conosce il cuore del Padre, che ha perduto il Figlio per lui, suo figlio perduto, a sua volta si perde per i fratelli perduti. La salvezza è questo perdersi in senso evangelico (9,24)! Il rapporto chiesa-mondo non è quello di separazione nella diversità, bensì quello di missione nella solidarietà fraterna. La salvezza non è estraniarsi dal mondo, ma entrare in esso con simpatia estrema, portandone il male fino a perdersi. E così vincerlo, perché il male è l’egoismo che divide i fratelli dal Padre e tra di loro. Il mondo è già tutto salvato dall’amore del Padre per il Figlio suo perduto e ritrovato. Tuttavia è salvo solo se conosce tale amore e può liberamente corrispondervi. Un povero che ha ereditato diecimila miliardi, muore ugualmente di fame se non lo sa e non li usa.
Al samaritano, ex lebbroso guarito che torna facendo eucaristia, Gesù chiede: «Non sono stati guariti tutti e dieci? E gli altri nove dove sono?» (17,16s). Dieci è il numero della comunità dei figli di Dio, che include tutti i fratelli, tutti amati dal Padre. Al vicino è chiesto conto del fratello lontano. Chi non risponde uccide, insieme alla propria fraternità, la paternità stessa di Dio. È come Caino quando dice: «Sono forse il guardiano di mio fratello?» (cf. Gn 4,9).
La missionarietà in Luca si esprime geograficamente nel «cammino verso Gerusalemme», che negli Atti si fa il cammino da Gerusalemme fino agli estremi confini della terra. Il primo è il cammino teologico di Gesù, che si è fatto incontro a tutti per riportarli alla casa del Padre. Il secondo è quello degli apostoli, che si conclude con Paolo, maestro nel Yagàpè, che accoglie tutti (At 28, 30s) in quella casa che Gesù ha aperto a ogni lontananza.
La missione, di Gesù e del discepolo, è quella del samaritano (10,29-37). Egli è l’escluso perché si fa carico di ogni esclusione. Il suo cammino passa necessariamente per la via della povertà, dell’umiliazione e dell’umiltà del Figlio dell’uomo che si dona in mano agli uomini. Così vince l’egoismo che divide i fratelli e che si esprime nell’avere, nel potere e nel valere. E solo così è rivelata la sapienza del Padre che è amore. Per questo ogni missione nella chiesa è in povertà, umiliazione e umiltà (cf. 9,lss; 10,lss), come quella del suo Signore crocifisso. È quanto i discepoli rifiutano ostinatamente di capire (9,44s). È pure quanto il Signore risorto non si stanca mai di ripetere (24,22). Su questo punto sarà necessario non solo aprire e spiegare la Scrittura ai discepoli, ma anche piegare e aprire l’intelligenza loro a essa (24,45).
Luca insiste molto sulla preghiera. È il dono di Gesù, che fa fiorire e crescere nel nostro cuore e nel mondo la paternità di Dio, la gioia del Figlio e la pace dei fratelli. Essa ottiene lo Spirito Santo, amore del Figlio e del Padre, respiro di ambedue, ci apre all’ascolto fecondo della Parola, e ci spinge ad annunciarla (At 1,8).
Luca, come ci informa in 1,1, ha delle fonti che utilizza con cura e con arte. Oltre Marco e le altre che ha in comune con Matteo, ne conosce e usa di proprie.
Il suo stile rivela una persona sensibile e colta, assai raffinata e cosciente dei mezzi espressivi che possiede. Nel NT è l’autore più carico di allusioni all’AT; ma in modo molto leggero e sfumato, talora solo con evocazioni emotive. Quasi ogni versetto, fosse anche solo con l’accenno di una sola parola, ha il potere di far risuonare, in modo delicato e armonico, quei temi che più stanno a cuore a Israele e che più sono in grado di far vibrare anche il cuore di ogni uomo. Egli compie così, in modo disinvolto, un’opera di mediazione e d’inculturazione davvero sublime, introducendo Israele tra i gentili e i gentili in Israele.
Luca si rivolge a un lettore proveniente dal paganesimo, che è già credente e desidera conoscere sempre più a fondo il volto amato del suo Signore e Salvatore Gesù. Alla fine gli riserva la gioiosa sorpresa di scoprirlo come un unico volto con il proprio, che nell’ascolto si è trasformato a immagine del suo.